Maltrattamenti in famiglia (572 c.p.) : Non è necessario che gli atti vessatori vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo sufficiente la loro ripetizione in un limitato contesto temporale.

Massima – Cass. pen., Sez. VI, Sent., 27/10/2023, n. 43684

In tema di maltrattamenti in famiglia, ai sensi dell’art. 572 c.p., non è necessario che gli atti vessatori vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo sufficiente la loro ripetizione in un limitato contesto temporale. Tale principio si fonda sulla necessità di garantire una tutela efficace dell’integrità fisica e morale delle persone che vivono in un contesto familiare, prevenendo e reprimendo comportamenti che, pur non raggiungendo la soglia di gravità richiesta per altri reati, sono comunque idonei a determinare una situazione di sofferenza per la vittima.

Massima a cura di Davide TutinoAvvocato penalista del Foro di Catania

Commento alla Sentenza Cass. pen., Sez. VI, Sent., 27/10/2023, n. 43684

La Sesta sezione della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 43684/2023, ha precisato che “Non è necessario che gli atti vessatori vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo sufficiente la loro ripetizione in un limitato contesto temporale“. Il delitto di maltrattamenti in famiglia è caratterizzato dalla reiterazione di condotte vessatorie che, nel loro complesso, determinano una situazione di sofferenza fisica o morale per la vittima. La Corte Suprema, con questa sentenza, ha voluto ribadire che non è necessario che gli atti vessatori si protraggano per un lungo periodo di tempo; è sufficiente, infatti, che essi si ripetano in un contesto temporale limitato. In altre parole, ciò che rileva ai fini della configurazione del reato è la reiterazione degli atti vessatori, indipendentemente dalla loro durata nel tempo. Questa interpretazione è in linea con la finalità del legislatore di tutelare l’integrità fisica e morale delle persone che vivono in un contesto familiare, prevenendo e reprimendo comportamenti che, pur non raggiungendo la soglia di gravità richiesta per altri reati, sono comunque idonei a determinare una situazione di sofferenza per la vittima. La Corte, con questa sentenza, ha inteso sottolineare che la tutela della vittima prevale sulla durata temporale degli atti vessatori e che è sufficiente la loro ripetizione, anche in un arco di tempo limitato, per configurare il reato di maltrattamenti in famiglia. La Suprema Corte, con questa decisione, ha voluto ribadire che la reiterazione degli atti vessatori, indipendentemente dalla loro durata nel tempo, è sufficiente per configurare il reato di maltrattamenti in famiglia. Questo principio è fondamentale per garantire una maggiore tutela delle vittime di tali reati, in linea con la finalità del legislatore di prevenire e reprimere comportamenti lesivi dell’integrità fisica e morale delle persone che vivono in un contesto familiare.

Testo della Sentenza Cass. pen., Sez. VI, Sent., 27/10/2023, n. 43684

Fonte del testo della Sentenza:
OneLEGALE Wolters Kluwer Italia Srl. Consultata in data 02/11/2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI STEFANO Pierluigi – Presidente –

Dott. APRILE Ercole – Consigliere –

Dott. GIORGI Maria Silvia – rel. Consigliere –

Dott. COSTANTINI Antonio – Consigliere –

Dott. VIGNA Maria Sabina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

A.A., nato il (Omissis);

avverso la sentenza del 26/01/2023 della Corte di appello di Milano;

Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa GIORGI Maria Silvia;

lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. EPIDENDIO Tomaso, l’inammissibilità del ricorso che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d’appello di Milano ha parzialmente riformato – limitatamente al trattamento sanzionatorio – la sentenza del Tribunale di Monza, che aveva ritenuto l’imputato responsabile del delitto di maltrattamenti in famiglia nei confronti della coniuge e del figlio, all’epoca minorenne, rideterminando la pena, con la concessione delle attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, in anni due e mesi sei di reclusione.

La Corte ripercorreva nel merito le motivazioni svolte dal primo giudice circa la consistenza in fatto dei reati contestati e riteneva non fondati i rilievi difensivi in ordine all’attendibilità delle persone offese. La descrizione da parte della persona offesa B.B. di ripetuti e non sporadici episodi di violenza, insulti sistematici, prevaricazioni, percosse e minacce, appariva dettagliata, precisa e coerente, nonchè confermata dalle deposizioni dei testi C.C., D.D. e E.E., nonchè dalla certificazione medica del 25 settembre 2013. A fronte di ciò non erano ritenute rilevanti le testimonianze rese da F.F. (fratello dell’imputato) e da G.G., attesa la loro genericità, così come non era dirimente il referto del 26 settembre 2013 per sostenere la reciprocità delle condotte. La Corte riteneva altresì provato il reato di maltrattamenti ai danni del figlio H.H. – all’epoca minorenne – attesa la lucida descrizione dei fatti resa dal giovane che aveva ricevuto il conforto degli insegnanti, i quali avevano a loro volta allertato i servizi sociali tanto che la B.B. si era successivamente allontanata dal domicilio insieme con il figlio per il quale era stato anche predisposto un percorso psicologico. A ciò si aggiungevano le dichiarazioni della nonna e della zia, le quali avevano personalmente assistito ad alcune scene di violenza perpetrate dal padre.

2. Il difensore di A.A. ha presentato ricorso per cassazione avverso la citata sentenza e ne ha chiesto l’annullamento, denunziando:

2.1 con riferimento al reato di maltrattamenti nei confronti della coniuge, l’erronea applicazione dell’art. 572 c.p. e il vizio di motivazione in relazione a condotte obiettivamente censurabili ma non abituali nè sistematicamente vessatorie e non sorrette dal dolo dei maltrattamenti; gli episodi rilevanti, nel corso del lasso temporale indicato nel capo di imputazione dal 2002 al settembre 2013, sono appena cinque, laddove la Corte non ha dimostrato che per gli altri singoli fatti-reato, sostanziati in lesioni, minacce e ingiurie, vi sia stato un disegno sistematico da parte dell’imputato a cui sia corrisposto un accertato stato di sofferenza fisica o morale della persona offesa. La Corte non ha tenuto conto della richiesta di parziale archiviazione, poi revocata, avanzata dalla Procura di Monza che all’epoca aveva ritenuto non integrato il reato in parola. Sotto diverso profilo i giudici di appello non hanno considerato l’elevato tasso di litigiosità della coppia e la conseguente carenza dell’elemento soggettivo, posto che non è stata dimostrata la consapevole volontà dell’agente di persistere in un’attività vessatoria;

2.2. la violazione di legge e il vizio di motivazione con riguardo al reato di maltrattamenti commesso nei confronti del figlio H.H., di cui al capo C) dell’imputazione. La Corte si è limitata a sostenere la piena credibilità del giovane, senza sottoporre a una doverosa analisi critica la tesi del Tribunale. All’epoca dei fatti il figlio era minorenne e, dunque, particolarmente permeabile a influenze e suggestioni esterne. Le dichiarazioni rese in dibattimento l’8 novembre 2019 sono state ritenute sufficienti a fondare il giudizio di responsabilità. Viceversa, non è emersa l’abitualità delle condotte maltrattanti, tanto che i fatti potrebbero essere ricondotti nell’alveo dell’abuso dei mezzi di correzione. Non sussiste l’elemento psicologico, posto che l’imputato non ha mai voluto denigrare nè vessare il figlio.

Con memoria depositata il 14 settembre 2023 il difensore ha ribadito i motivi di ricorso insistendo per l’accoglimento.

3. Il ricorso è stato trattato in forma cartolare.

Motivi della decisione
1. I motivi di ricorso non sono fondati.

2. Sono infondate le censure con le quali il ricorrente denuncia la violazione di legge e il vizio motivazionale circa il giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa B.B. e la configurabilità degli elementi costitutivi del reato di maltrattamenti.

I relativi motivi di ricorso, infatti, appaiono sostanzialmente orientati a riprodurre un quadro di argomentazioni già esposte dinanzi ai giudici di merito e ampiamente vagliate e correttamente disattese dalla Corte distrettuale, ovvero intese a sollecitare una rivisitazione delle risultanze processuali, in tal guisa richiedendo, sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, l’esercizio di uno scrutinio improponibile in questa sede, a fronte della logica consequenzialità che caratterizza la scansione delle sequenze motivazionali dell’impugnata decisione, che ha linearmente ricostruito il compendio storico-fattuale posto alla base dei temi d’accusa.

In particolare, il contributo narrativo della persona offesa B.B. è stato attentamente e criticamente vagliato dalla Corte territoriale, che si è confrontata anche con la valenza confermativa delle dichiarazioni delle testi C.C. e D.D. (rispettivamente sorella e madre della donna) che hanno offerto convergenti riscontri non solo con riguardo all’irascibilità dell’imputato, incapace di contenersi anche in presenza dei familiari, ma anche con riferimento a inequivocabili segni di percosse (pure sul volto) che solo con ritrosia la congiunta aveva svelato essere opera del marito. In un’occasione C.C. aveva allertato personalmente le forze dell’ordine allorchè A.A. aveva gettato i vestiti della sorella dal balcone di casa, in un’altra aveva constatato che l’imputato aveva impedito alla moglie il rientro in casa. Le aggressioni verbali e gli epiteti ingiuriosi erano stati riferiti, oltre che dalle congiunte, dalla vicina di casa E.E. che aveva udito più volte A.A. imprecare contro la coniuge.

I giudici di appello non hanno ritenuto che il quadro probatorio potesse essere scalfito dalle testimonianze del fratello dell’imputato e di G.G., in ragione della loro genericità, nè dalla certificazione medica tesa a supportare la versione difensiva della reciprocità delle condotte, posto che eventuali azioni di reazione o difesa non escludono comunque la tipicità della contestata fattispecie di maltrattamenti.

Può, quindi, concludersi nel senso che la Corte ha compiutamente argomentato – con motivazione puntuale e logicamente adeguata – il giudizio di attendibilità del complessivo resoconto della B.B., evidenziando l’assenza di animosità della dichiarante (neppure costituitasi parte civile), sottolineando la mancanza di fratture logiche nella concatenazione della ricostruzione compiuta e, infine, valorizzandone anche i riscontri esterni.

Anche in linea di diritto la ratio decidendi della sentenza impugnata appare coerente con la giurisprudenza di legittimità in materia, la quale ha affermato che integra l’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale, e non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo (Sez. 3, n. 6724 del 22/11/2017, D.L., Rv. 272452). Peraltro, nel corso della convivenza fra l’imputato e la persona offesa, la donna è stata assoggettata a condotte prevaricatrici reiterate e frequenti, inaspritesi dopo il 2009, pur essendovi stato un miglioramento durato alcuni anni dopo la nascita del figlio.

Priva di rilevanza è la richiesta di parziale archiviazione formulata dal P.M. nel 2013, cui il ricorrente rimanda, sia perchè atto di natura endoprocedimentale, sia perchè, secondo quanto affermato dalla stessa difesa, successivamente revocata.

3. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso. Il contributo narrativo della persona offesa, minorenne all’epoca dei fatti, è stato attentamente e criticamente vagliato dalla Corte territoriale, che si è confrontata con la valenza confermativa delle dichiarazioni rese dalla madre, nonchè dai testi C.C. e D.D., oltre che dagli insegnanti che avevano provveduto a investire gli assistenti sociali, dando così inizio a un percorso che aveva portato all’allontanamento dalla casa familiare di madre e figlio. Vero è che i principi in materia di valutazione della credibilità della persona offesa trovano un’applicazione ancor più rigorosa quando la stessa sia minorenne e i fatti narrati possano interagire con gli aspetti più intimi della sua personalità adolescenziale o infantile, tanto da accentuare il rischio di suggestioni, reazioni emotive, comportamenti compiacenti, ma è altresì noto che, una volta effettuato un rigoroso vaglio, non esistono preclusioni o limiti generali alla capacità del minore di rendere testimonianza, rimanendo la valutazione della sua attendibilità compito esclusivo del giudice (Sez. 3, n. 189 del 12/11/2020, L., Rv. 280824). Orbene, la Corte territoriale ha puntualmente vagliato l’attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni di H.H., ritenendole coerenti, lineari, immuni da fratture logiche e confortate da plurimi riscontri esterni.

4. Quanto alla pretesa riconducibilità della condotta al reato di cui all’art. 571 c.p., una volta accertato con giudizio di merito insindacabile in sede di legittimità il manifestarsi abituale da parte dell’imputato di ripetute condotte vessatorie nei confronti del figlio minore, che superavano il limite di un normale pur rigoroso metodo educativo, va ribadito che l’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore, anche se sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti (Sez. 6, n. 11956 del 15/02/2017, B., Rv. 269654; Sez. 6, n. 36564 del 10/05/2012, C., Rv. 253463; Cass. Sez. 6, n. 4904 del 18/03/1996, C., Rv. 205033).

La Corte territoriale ha fatto buon governo di tale principio, sottolineando che le metodiche utilizzate, per la loro pervasività e per le conseguenze indotte in termini di sofferenza morale, esulavano dal contesto educativo e correzionale. L’umiliazione e la svalutazione della personalità (basti pensare alla terminologia degradante usata anche in presenza di coetanei del ragazzo, agli sputi, alle percosse a mani nude o con il mattarello) non avevano alcuna connotazione educativa e si risolvevano in angherie e immotivate vessazioni. Correttamente pertanto la condotta è stata inquadrata nella fattispecie di cui all’art. 572 c.p., a nulla rilevando le eventuali finalità rieducative asseritamente (e del tutto genericamente) perseguite dall’imputato.

5. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Dispone, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, che sia apposta, a cura della Cancelleria, sull’originale del provvedimento, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati in sentenza.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 27 settembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2023