615-ter c.p.: Liceità ed illiceità della condotta nell’accesso abusivo al sistema SDI

Massima

Il Tribunale di Ferrara ha ribadito che, in tema di accesso abusivo al sistema SDI, (reato previsto e punito dall’art. 615-ter del codice penale), la condotta del soggetto agente non si qualifica come lecita per la sola sussistenza di una formale autorizzazione all’accesso al sistema informatico, occorrendo altresì che sia rispettato il fine per il quale l’autorizzazione è stata concessa. Occorre dunque verificare se l’imputato abbia effettuato gli accessi allo SDI per una motivazione inerente al suo ufficio o, al contrario, per interessi personali, con l’avvertenza che la presenza di questi ultimi accanto a quelli istituzionali non vale a rendere la condotta illecita (Tribunale di Ferrara Sentenza 03-09-2019).

Massima a cura di Davide Tutino – Avvocato penalista del Foro di Catania

Testo della Sentenza

Fonte del testo della Sentenza:

Banca dati UTET/PLURIS Wolters Kluwer Italia Srl consultata in data 16/01/2021

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Tribunale di Ferrara Sentenza 03-09-2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI FERRARA

Il Tribunale di Ferrara, in composizione monocratica, in persona del giudice dott. Andrea Migliorelli, alla pubblica udienza del 21.05.2019 ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente

SENTENZA

nei confronti di:

V.S., nato a C. (F.) il (…), ivi residente in Fraz. C. Via A. n. 13

– Libero presente-

IMPUTATO

Dei reati ex artt. 81 comma 2, 615 ter comma 1, comma 2 n. 1 e comma 3 c.p. perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, nella sua qualità di pubblico ufficiale (Maresciallo Capo in servizio presso il comando stazione Carabinieri di (…) in qualità di comandante) con conseguente abuso dei doveri inerenti alla funzione o al servizio anche in relazione alla sua attività di operatore del sistema, abusivamente si introduceva, utilizzando la user id a sua disposizione ( n. (…) nel sistema informatico/telematico relativo al Centro Elaborazione Dati del Ministero dell’Interno in uso al predetto comando stazione, archivio di pubblico interesse e protetto da misure di sicurezza, e prendeva abusivamente cognizione, per finalità estranee alle ragioni di servizio, delle banche dati relative alle seguenti posizioni:

(…)

In (…)

Con l’intervento del Pubblico Ministero: dott. A. Rossetti VPO

Del difensore di fiducia : Avv. Luca Sirotti del Foro di Bologna, sostituito dall’Avv. Nicola Santi del Foro di Bologna.

Del difensore di parte civile Avv. Marco Linguerri del Foro di Ferrara, sostituito dall’Avv. Silvia Fasolin del Foro di Ferrara

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il processo.

A seguito di decreto che dispone il giudizio emesso in data 16 settembre 2016, V.S. è stato chiamato a rispondere del reato di cui al capo di imputazione.

In data 12 aprile 2017, già costituita la parte civile V.E.M. e dichiarata l’assenza dell’imputato, rilevata l’adesione da parte dei difensori all’astensione dall’attività di udienza deliberata dall’Unione delle Camere Penali, il giudice ha rinviato il processo al 16 gennaio 2018, con sospensione dei termini di prescrizione per l’intero periodo (cfr. Cass., Sez. 3, n. 11671 del 24/02/2015 – dep. 20/03/2015, Spignoli, Rv. 26305201).

In tale data, il trasferimento del giudice assegnatario del fascicolo comportava un nuovo rinvio.

Il 5 giugno 2018, previa riassegnazione del procedimento al giudice scrivente, veniva revocata la dichiarazione di assenza, venivano ammesse le prove e si rinviava al 12 ottobre 2018, per l’inizio della loro assunzione.

In questa udienza venivano ascoltati i testimoni Magg. A.G. e Magg. V.E.M.. La difesa dell’imputato ha inoltre prodotto la sentenza e i verbali del procedimento penale tenutosi innanzi al Tribunale militare di Verona per il reato di diffamazione militare.

In data 8 febbraio 2019 si è svolto l’esame dell’imputato, mentre il P.M. ha rinunciato ai testi residui Y.J.B. e B.B., con conseguente revoca della loro ammissione. Il P.M. ha inoltre depositato il verbale di interrogatorio dell’imputato di fronte al giudice per le indagini preliminari, mentre la difesa ha prodotto la sentenza di assoluzione dell’imputato nel diverso procedimento che lo aveva visto accusato del reato di falso in atto pubblico. La parte civile ha depositato documentazione a supporto dell’accusa, riguardante gli accessi al sistema informatico compiuti dall’imputato, le autorizzazioni rilasciate allo stesso, nonché della giurisprudenza come indice della quantificazione del danno subito. Il P.M. procedeva infine alla correzione del capo di imputazione nel punto 12) indicando come date corrette di commissione del fatto il 2 e 22 gennaio 2010 invece che il 22 e 23 gennaio 2010.

Il 21 maggio 2019 è invece stato ascoltato il testimone della difesa M.llo (…). Nella medesima udienza, terminato il dibattimento e dichiarata l’utilizzabilità degli atti e delle prove assunte, il Giudice invitava le parti a formulare le rispettive conclusioni.

All’esito della camera di consiglio, si dava pubblica lettura del dispositivo di sentenza.

La ricostruzione dei fatti.

Il presente processo ha ad oggetto l’accusa di accesso abusivo a un sistema informatico mossa nei confronti dell’allora Maresciallo dei Carabinieri della Stazione di (..) V.S.. Nella tesi di accusa, egli avrebbe consultato illecitamente nella banca dati SDI, abusando della propria posizione, i nominativi di Y.J.B., V.E.M. e B.B. per finalità estranee a quelle dell’ufficio, in un arco temporale che va dal 5 agosto 2009 al 23 febbraio 2010.

Preliminarmente, va chiarito che, avuto riguardo ai limiti edittali e alle aggravanti del reato contestato, nessun episodio risulta ancora prescritto, considerata anche la sussistenza di una causa di sospensione della prescrizione dal 12 aprile 2017 al 16 gennaio 2018.

La vicenda si inserisce all’interno di un contesto più complesso, già oggetto di diverse pronunce da parte di Tribunali ordinari e speciali, peraltro riversate in atti.

Sulla scorta della documentazione acquisita e delle testimonianze raccolte nel corso del dibattimento, i fatti per cui è processo possono essere ricostruiti nei termini che seguono.

Nella primavera del 2010 il Magg. A., all’epoca reggente il Nucleo Investigativo presso il Comando Provinciale dei Carabinieri di (…), fu incaricato di effettuare accertamenti in ordine a vari accessi da parte del Maresciallo della stazione di (…) V.S. nelle banche dati in uso alle forze di Polizia, effettuati per finalità estranee a quelle di servizio. L’informazione sull’esistenza di ipotesi di reato era stata comunicata dalla Compagnia di Cento al Comando Provinciale, che aveva poi incaricato A.. Il Maggiore aveva verificato la presenza di interrogazioni provenienti dal codice utente dell’imputato e relative a nominativi che non sembravano trovare giustificazione nell’attività di servizio del Mar. V.: nel presente procedimento penali quelle che interessato sono relative al Magg. V.E.M., a B.B. e a Y.J.B..

  1. aveva in particolare verificato che non esistessero procedimenti penali aperti nei confronti dei predetti soggetti, né altri motivi che potessero ricondurre a fini di servizio tali interrogazioni.

Va preliminarmente chiarito che all’interno della banca dati (il cui acronico è SDI: Sistema di investigazione) ciascun appartenente dalle forze di Polizia può accedere tramite il proprio codice utente e la propria password, di natura strettamente riservata. Di ogni accesso rimane traccia. Varie sono le voci che possono essere consultate per ogni nominativo, ciascuna contenente informazioni di tipo diverso, a cui ciascun utente è autorizzato in base al grado ricoperto. Le forze di Polizia hanno un obbligo di aggiornare quotidianamente la banca dati, inserendo tutte le informazioni di rilievo investigativo e di prevenzione apprese nell’esercizio della propria funzione. Va da sé che la consultazione della banca dati rappresenta uno strumento investigativo importantissimo, ma delicato.

La posizione di Y.J.B. era stata consultata da V. in molteplici occasioni, a partire dal 5 agosto 2009 e fino al 23 febbraio 2010. Le interrogazioni avevano riguardato la persona fisica, i controlli sul territorio, le eventuali informative di polizia e la movimentazione degli stranieri. Era un fatto noto, inoltre, che Y. avesse qualche anno prima sporto querela nei confronti dell’odierno imputato, vicenda dalla quale era scaturito il procedimento penale n.g.n.r. 12687/2007 presso la Procura di Bologna.

V.E.M. era all’epoca il comandante della Compagnia dei Carabinieri di (..), superiore gerarchico del Mar. V.. Le interrogazioni del suo nominativo sono state compiute in data 2 e 22 gennaio 2010. Egli risultava firmatario di una informativa diretta alla Procura Militare presso il Tribunale Militare di Verona riguardante proprio il Mar. V..

Infine, il 29 dicembre 2009 risultava che l’ID in uso a V. avesse consultato il nominativo B.B., persona fisica che il Magg. A. aveva ipotizzato potesse identificarsi nel Sostituto Procuratore della Repubblica preso la Procura Militare di Verona, titolare del procedimento nei confronti di V. instaurato a seguito dell’informativa del Magg. V.. Tuttavia, il testimone ha precisato di non aver compiuto nessun accertamento a verifica di tale deduzione e che dalla semplice consultazione del nominativo non emerge il lavoro svolto dal soggetto.

Come già detto, il Magg. V.E.M. era all’epoca dei fatti il Comandante della Compagnia dei Carabinieri di (..), superiore gerarchico del Maresciallo della stazione di Renazzo V.S.. Egli era venuto a conoscenza degli accessi compiuti presso lo SDI proprio dall’odierno imputato, il quale, nel mese di marzo 2010, gli aveva chiesto per quale motivo il suo nome risultasse associato in banca dati a una informativa diretta all’autorità giudiziaria ordinaria e militare. Interrogato sul come avesse avuto conoscenza di tale informazione, V. aveva detto di avere consultato il proprio nominativo, ritenendo che fosse un’attività permessa. Appresa questa notizia, il Magg. V. aveva quindi richiesto al Centro Elaborazione Dati presso il Ministero dell’Interno di Roma la documentazione relativa agli accessi compiuti dal Maresciallo a partire dal 1 agosto 2009. Consultando la risposta giunta dall’ufficio centrale, aveva verificato la presenza di interrogazioni ritenute ingiustificate, tra cui quella del suo nome, delle quali aveva in seguito riferito al Comando Provinciale. Egli ha confermato la presenza di consultazioni relative a Y.J.B., che egli sapeva aver sporto denuncia verso il Mar. V., oltre ad altri nominativi.

A monte di questa vicenda si pongono alcuni accadimenti che sono risultati rilevanti nella ricostruzione dei fatti. Il Magg. V. ha precisato che nell’autunno del 2009 era stato autore di una informativa riguardante, tra gli altri, anche la posizione del Mar. V., per i reati di diffamazione militare e falso ideologico, da cui erano scaturiti procedimenti entrambi conclusi con un’assoluzione per l’imputato. In particolare, si era verificato che, verso la fine del luglio 2009, il Mar. V. aveva presentato al Magg. V. una relazione di servizio, in cui accusava l’app. P.R., suo collega in servizio presso la compagnia di (..), di aver tenuto comportamenti censurabili sotto il punto di vista disciplinare e forse anche penale. Il Magg. V. aveva tuttavia ricevuto una relazione di servizio anche da parte dell’app. P., con il quale questo accusava il Mar. V. di aver creato una campagna diffamatoria nei suoi confronti. Anche in ragione di queste vicende, il Magg. V. aveva chiesto che il Mar. V. fosse rimosso dall’incarico di comandante della stazione dei Carabinieri di (..) e fosse provvisoriamente assegnato al nucleo radiomobile di Ferrara, cosa che era in effetti poi avvenuta.

V.S. si è sottoposto alle domande delle parti all’udienza del 8 febbraio 2019. Nel proprio esame egli ha negato di aver compiuto un accesso sulla persona di B.B., nominativo che gli era nel 2009 pressoché sconosciuto, dal momento che l’informazione di garanzia per il reato di diffamazione militare, del cui procedimento era titolare il Sostituto Procuratore di Verona B.B., gli venne notificato solamente nell’aprile 2010, quindi 4 mesi dopo i fatti. In altre parole, al momento in cui fu compiuto dalla sua utenza l’accesso al nominativo suddetto egli era ancora inconsapevole della pendenza di un procedimento penale a suo carico, il cui titolare era il magistrato B.B..

  1. ha anche dichiarato di non essere stato in caserma nell’orario in cui venne effettuato l’accesso, producendo la relazione di quel giorno. Ha aggiunto di essersi accorto che qualcuno aveva acceduto al proprio computer in sua assenza e di aver depositato un esposto presso la Procura competente nei confronti del Magg. V. per il reato di accesso abusivo a un sistema informatico. Si sconoscono gli esiti di tale iniziativa.
  2. non ha invece negato di aver consultato il nominativo di V.E.M., suo superiore gerarchico. Egli ha spiegato che nel dicembre 2008 aveva informato oralmente il Magg. V. della sussistenza di un possibile reato commesso dal precedente Maresciallo della stazione di Renazzo, ma che nessuna iniziativa ne era seguita. Nell’estate del 2009 era poi venuto a conoscenza di alcuni comportamenti di rilievo disciplinare o addirittura penale tenuti da un appuntato in servizio presso l’aliquota radiomobile di Cento, tale R.P.. Dopo aver preso ulteriori informazioni, aveva segnalato tali comportamenti tramite una relazione di servizio al proprio superiore gerarchico, il Magg. V.E.M.. Anche in questo caso non erano seguite iniziative disciplinari o giudiziarie, circostanza che il Mar. V. aveva giudicato sospetta. Aveva quindi fatto accesso alla banca dati per verificare se sussistessero informazioni che potessero avvalorare l’ipotesi di un’omessa denuncia da parte del proprio superiore, ritenendo la sussistenza della possibile commissione di un reato. Egli ha anche dichiarato di aver segnalato la questione al Generale dei Carabinieri dell’Emilia Romagna, che gli aveva detto di attendere l’esito dei vari processi in corso.
  3. ha aggiunto che fin da subito non c’era stata particolare sintonia con il Magg. V., che aveva tenuto nei suoi confronti un atteggiamento immotivatamente ostile, ragione per cui dopo qualche anno il Maresciallo l’aveva anche denunciato due volte per diffamazione e calunnia, ipotesi di reato in entrambi i casi archiviate.

Anche la consultazione del nominativo di Y.J.B. è stata ammessa dall’imputato. Egli ha ripercorso brevemente la vicenda del 2007, accaduta quando egli prestava servizio a Castello d’Argile e da cui è scaturita la vicenda penale che lo vedeva al tempo stesso imputato e persona offesa nel processo che coinvolgeva anche Y.. Qualche anno dopo quei fatti, mentre era in corso il processo per quella vicenda, V. aveva poi rivisto Y. nella nuova zona di sua competenza, che nel frattempo era diventata Renazzo. L’imputato ha riferito che la mancata comparizione di Y. in quel processo aveva comportato una serie di rinvii. Questo, unitamente al fatto che Y. era un soggetto pregiudicato da tenere sotto osservazione, l’aveva indotto a consultare, tra un’udienza e l’altra, la posizione di questo, per verificare i suoi movimenti, le sue frequentazioni e l’effettiva presenza nel territorio dell’uomo. Tuttavia, i vari accessi effettuati non avevano dato nessun riscontro di carattere investigativo e il processo si era infine chiuso con una reciproca remissione di querela.

Infine il testimone della difesa (..), in qualità di ex responsabile della sicurezza delle indagini e Focal Point dello SDI, è stato chiamato a riferire sul funzionamento del Sistema di Indagine (SDI) in uso alle forze di Polizia. Secondo la sua esperienza, un appartenente alle forze dell’ordine è legittimato a fare accesso allo SDI ogni qualvolta abbia un sospetto relativo a un altro soggetto, indipendentemente dal grado o dal ruolo ricoperto da quest’ultimo, purché ciò rientri in un fine istituzionale. Tale fine non deve necessariamente tradursi in una informativa alla magistratura, ma può esaurirsi semplicemente in una verifica dell’attività compiuta da quel soggetto, a riscontro dei propri sospetti investigativi. Tale possibilità non è esclusa dalla pendenza di un procedimento penale instaurato per iniziativa del controllato nei confronti dell’appartenente alle forze dell’ordine, purché, ancora una volta, sussista un motivo di ufficio a sorreggere tali attività.

Il giudizio di responsabilità e la qualificazione giuridica.

Dal punto di vista probatorio la vicenda oggetto di imputazione è stata per buona parte ricostruita in termini piuttosto univoci. Al di là dei riscontri documentali acquisiti nel corso dell’istruttoria, è lo stesso Maresciallo V. ad aver ammesso esplicitamente di aver effettuato gli accessi relativi ai nominativi di V. e Y., rispetto ai quali, dunque, non pare necessario soffermarsi ulteriormente.

L’imputato ha invece negato di aver effettuato l’accesso a verifica del nominativo B.B., addebitandolo a soggetti terzi in un momento in cui egli non era presente in ufficio.

Quale notazione di metodo va premesso che il presente giudizio è chiamato a verificare che la commissione da parte dell’imputato di un determinato fatto si sia effettivamente verificata al di là di ogni dubbio dotato di ragionevolezza; non anche che l’ipotesi alternativa da lui paventata sia veritiera. In altre parole, occorre qui valutare se gli elementi di segno contrario a quanto contenuto nel capo di imputazione possano gettare ombre ragionevoli sulla commissione del fatto, non già di ricostruire come altrimenti e da parte di chi quell’accesso sia stato compiuto. Ai fini dell’assoluzione è infatti sufficiente anche la mera assenza di una certezza processuale circa la verificazione del fatto inserito nel capo di imputazione, non anche l’affermazione, in positivo, che quel fatto si sia verificato in maniera differente.

In questo ordine di idee vano dunque svolte alcune considerazioni.

Sotto il punto di vista fattuale, l’imputato ha riferito che il 29 dicembre 2009 egli si trovava impegnato in un’altra attività di servizio, che aveva richiesto la sua presenza al di fuori dell’ufficio fino alle ore 14. Le due consultazioni del nominativo di B.B. erano invece avvenute alle ore 13.50 circa e non sarebbero per tale motivo a lui addebitabili. A supporto di tale tesi, la difesa ha prodotto la scheda di servizio di quella giornata, sulla cui veridicità non sussistono motivi per dubitare. Sussiste quindi un primo elemento di dubbio, relativo alla effettiva presenza in ufficio del Maresciallo V. al momento dell’accesso in banca dati.

A ciò deve aggiungersi l’assenza di una palese motivazione dietro a tale prospettata condotta. È infatti emerso che solo verso la fine dell’aprile 2010, cioè circa 4 mesi dopo l’accesso del 29 dicembre 2009, l’imputato ricevette la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini per il processo che lo vedeva indagato del reato di diffamazione militare e del quale il Sostituto Procuratore Militare B.B. era titolare. V., inoltre, si rivolse al Magg. V. chiedendogli il perché al suo nominativo in banca dati risultasse associata una notizia di reato solo nel marzo 2010 ed è ragionevole ritenere che avesse avuto contezza di tale notizia solo in quell’occasione e non prima. Non ci sono elementi, ancora, per ritenere che egli potesse essere altrimenti a conoscenza del procedimento iscritto a suo carico e del titolare del fascicolo.

Infine, egli ha ammesso gli ulteriori accessi, mentre ha decisamente negato questo, dicendo di non averne il ricordo.

L’insieme di tali elementi porta a ritenere non sufficientemente provata l’ipotesi dell’accesso abusivo di cui al punto 13), rispetto al quale è possibile sia sostenere che V. non abbia compiuto l’accesso, sia che egli abbia controllato tale nominativo riferendolo a un soggetto diverso dal magistrato titolare del fascicolo che lo interessava e di cui, trascorsi ormai 10 anni dal fatto, non ha ricordo. Ponendosi le due alternative su un piano di equivalenza probatoria, deve darsi preferenza a quella maggiormente favorevole per l’imputato, sicché la formula assolutoria da privilegiare sarà quella di non aver commesso il fatto.

Relativamente alle residue imputazioni, si è già detto, il Mar. V. ha ammesso le consultazioni effettuate in banca dati e non sussistono perciò problemi di natura probatoria.

La questione affrontata nel presente processo necessita però di un inquadramento di ordine sostanziale, in merito alle caratteristiche del reato contestato.

È noto come i contorni dell’art. 615 ter c.p. abbiano subìto nel tempo vari cambiamenti da parte della giurisprudenza di legittimità, che è infine intervenuta nel 2017 con una pronuncia a Sezioni Unite. La Suprema Corte ha infatti stabilito che “integra il delitto previsto dall’art. 615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita” (Nella specie, la S.C. ha ritenuto immune da censure la condanna di un funzionario di cancelleria, il quale, sebbene legittimato ad accedere al Registro informatizzato delle notizie di reato – c.d. Re.Ge. – conformemente alle disposizioni organizzative della Procura della Repubblica presso cui prestava servizio, aveva preso visione dei dati relativi ad un procedimento penale per ragioni estranee allo svolgimento delle proprie funzioni, in tal modo realizzando un’ipotesi di sviamento di potere, Cass., Sez. U, n. 41210 del 18/05/2017 – dep. 08/09/2017, Savarese, Rv. 27106101).

La condotta del soggetto agente, dunque, non si qualifica come lecita per la sola sussistenza di una formale autorizzazione all’accesso al sistema informatico, occorrendo altresì che sia rispettato il fine per il quale l’autorizzazione è stata concessa: nel caso che qui ci occupa il fine istituzionale legato alla “prevenzione e repressione della criminalità”. Occorre dunque verificare se l’imputato abbia effettuato gli accessi descritti per una motivazione inerente al suo ufficio o, al contrario, per interessi personali, con l’avvertenza che la presenza di questi ultimi accanto a quelli istituzionali non vale a rendere la condotta illecita.

I testimoni ascoltati nel corso dell’udienza, tutti qualificati per via dell’esperienza da ciascuno vantata nel campo delle indagini di Polizia, hanno ricondotto l’accesso alla banca dati alla ricorrenza di un sospetto relativo alla possibile commissione di reato e dunque alla sua prevenzione. Tale concetto è parso per il vero sfornito di un contorno ben definito restando affidato, come è in parte naturale che sia, alla diversa sensibilità o esperienza del soggetto chiamato ad agire. In ogni caso, è emerso che il sospetto debba basarsi su un appiglio fattuale, non potendosi in alcuna maniera giustificare iniziative basate sulla mera curiosità o su interessi personali di altro tipo. Ciò, d’altronde, deriva dalla delicatezza e dalla rilevanza delle informazioni riversate quotidianamente dalle forze di Polizia nella banca dati, attinenti ai più disparati aspetti, anche di natura privata, della vita dei consociati.

In questa ottica vanno affrontati gli accessi che hanno riguardato V.E.M. e Yazidi Jamil Baigagem.

Iniziando da quest’ultimo, l’istruttoria ha certamente dato conto della sussistenza di una pregressa vicenda personale e giudiziaria con il Mar. V.. Y. era stato oggetto di attenzioni investigative già nel precedente luogo di servizio dell’imputato, a Castello d’Argile. In una di queste occasioni, nel 2007, Y. aveva anche accusato il Maresciallo di averlo malmenato, motivo per il quale ne era scaturito un procedimento penale, ancora in essere al momento in cui vennero effettuati gli accessi. Lo stesso V. ha ammesso che il motivo di tali consultazioni era anche stato quello di verificare l’effettiva presenza sul territorio italiano di Y., poiché la sua reiterata assenza nel (reciproco) processo instaurato a seguito dei fatti del 2007 aveva creato una situazione di stallo. Dunque, certamente gli accessi in ordine alla persona di Y. sono stati dettati da motivi anche di carattere personale, estranei alla sfera istituzionale che l’imputato doveva perseguire.

Tuttavia egli ha anche aggiunto alcune considerazioni sulla persona di Y.. Si trattava in particolare di un soggetto pregiudicato e che già in passato era stato meritevole di attenzione investigativa, il quale dopo la riassegnazione di V. presso la Stazione di Renazzo era stato da egli personalmente visto più volte aggirarsi nel territorio di sua competenza. Anche alla luce di tali circostanze, V. aveva ritenuto che si trattasse di un soggetto da controllare e ha giustificato gli accessi sul suo conto, d’altronde compiuti anche in date in cui non era fissata alcuna udienza per il processo che lo riguardava.

Si tratta, sotto questo punto di vista, di accessi che trovano una ragionevole giustificazione istituzionale, poiché, al di là del rapporto personale con l’imputato, Y. era soggetto non estraneo al circuito criminale e aveva iniziato la frequentazione del territorio di competenza della stazione dei Carabinieri di cui V. era a capo. Vero è che ragioni di opportunità avrebbero forse richiesto che della posizione dell’uomo si fosse occupato un diverso appartenente alle Forze dell’Ordine, visti i trascorsi con il Mar. V.; tuttavia non sussistono ragioni giuridiche che depongano per l’illiceità di tale comportamento. La sussistenza di un parallelo interesse personale, sopra elencato, non può valere a ritenere la condotta illecita: tale interesse si mostra come recessivo rispetto a quello di servizio e si atteggia come irrilevante, giacché non costituisce il motivo unico che ha determinato la condotta dell’agente.

In questo caso, dunque, deve ritenersi che il fatto non sussista affatto, per via dell’esistenza di una finalità legittimante all’accesso. Ne segue la conforme declaratoria di assoluzione in ordine al punto 1) dell’imputazione.

Rimangono ora da analizzare gli accessi compiuti nei confronti di V.E.M. il 2 e il 22 gennaio 2010. È palese che l’imputato conoscesse la qualifica del soggetto controllato e ricollegasse quel nominativo a una determinata persona fisica, come da egli effettivamente ammesso. V. ha giustificato tale accesso per l’esigenza di trovare elementi che potessero supportare il proprio sospetto in ordine alla sussistenza di un “insabbiamento” da parte del Magg. V. circa i fatti a carico di personale appartenente all’Arma, che lo stesso V. aveva denunciato in due precedenti occasioni. In particolare, l’occasione di tale controllo era stata data dall’assenza di iniziative di tipo disciplinare od organizzativo nei confronti dell’app. R.P., carabiniere alle dirette dipendenze di V.. Tale inerzia, sommata alla precedente segnalazione relativa a un allaccio abusivo alla rete elettrica compiuta da un altro appartenente all’Arma e di cui non aveva più avuto notizia, era parsa insolita a V., che aveva dunque consultato il nominativo del proprio superiore gerarchico alla ricerca di cointeressenze coi soggetti segnalati o di precedenti segnalazioni per reati del tipo di quello che egli aveva prospettato in capo a V..

Nel corso dell’istruttoria è però emerso come V. fosse a conoscenza del fatto che alcune iniziative di carattere investigativo erano già state intraprese dal Maggiore. Quest’ultimo, infatti, aveva convocato alcune persone per ascoltarle sui fatti, istruendo quindi la segnalazione giunta da V..

Quale altro dato di fondo di una vicenda indubbiamente articolata, è poi emersa la presenza di una forte ostilità tra l’imputato e V., forse dovuta a una naturale reciproca antipatia, poi sviluppatasi attraverso varie vicende processuali che hanno visto ora l’uno, ora l’altro in veste di accusatore e di accusato. Vicende processuali nelle quali, va chiarito, non è mai intervenuta una sentenza di condanna a carico di uno dei due. Già dalla metà del dicembre del 2009, tuttavia, V. aveva chiesto e ottenuto il distacco temporaneo del Mar. V. presso il Comando di Cento, per ragioni di serenità ambientale legate agli esposti verso i colleghi da egli presentati. Ancora, è da presumere anche l’esistenza di un contrasto tra V. e l’app. P., per via dei reciproci esposti da ciascuno presentati nei confronti dell’altro.

Questo essendo il quadro della situazione, resta da chiarire se l’accesso compiuto da V. potesse dirsi giustificato da motivi istituzionali.

In astratto, l’istruttoria ha chiarito che non sussiste una preclusione al compimento di un’indagine da parte di un sottoposto nei confronti di un superiore gerarchico. Sussistono però ragioni non codificate di opportunità per le quali tali indagini devono essere trasmesse a un più elevato grado di Comando, anche al fine di mantenere una maggiore imparzialità nella loro conduzione. L’azione di V. si pone quindi già al limite con la prassi esistente all’interno dell’Arma dei Carabinieri, pur non sconfinando in alcuna violazione di legge.

Il fulcro centrale dell’indagine è però rappresentato dalla sussistenza ragionevole di un sospetto circa la condotta del Magg. V., tale da giustificare un accesso in banca dati e da non travalicare i limiti istituzionali strabordando in interessi di almo tipo.

Si è già ricordata la contrapposizione esistente tra P. e V.. L’assenza di iniziative verso P. può allora rappresentare un motivo di natura personale per cui V. ebbe a biasimare l’inerzia di V., considerando anche come l’imputato avesse invece subìto, a seguito di quelle vicende, il distacco temporaneo presso un altro Comando. La difesa di parte civile, nelle proprie conclusioni, ha sostenuto che la condotta dell’imputato sia stata mossa da una diversa valutazione circa le iniziative che il Magg. V. avrebbe dovuto tenere nei confronti di P.. Tale considerazione, che non rivestiva un carattere istituzionalmente di pertinenza di V., andrebbe qualificata dunque come di carattere personale e avrebbe mosso l’agire dell’imputato. Interrogato sul punto, egli ha affermato che l’accesso al sistema informatico sul nominativo di V. ha avuto “carattere esplorativo”, di ricerca. Non si coglie però il carattere istituzionale di una condotta i cui risultati sono rimasti nel foro interno dell’imputato e scaturente da una considerazione che non era di pertinenza del Mar. V., ma che vedeva oltretutto la sussistenza di un parallelo e forte interesse personale, mirante a ottenere provvedimenti disciplinari verso P. che avrebbero indirettamente confermato la bontà di quanto da egli denunciato nei confronti di un soggetto che l’aveva accusato di diffamazione. La valutazione effettuata da V. in ordine alla possibile commissione di un reato da parte del proprio superiore ha in questo senso avuto carattere personale: egli, animato da un sentimento di rivalsa verso V., ha cioè ritenuto, sostituendosi alla valutazione del Maggiore ed esulando dalle proprie competenze, che l’assenza di iniziative verso P. rappresentasse il sintomo di una collusione da parte di V., senza tuttavia che altri elementi fossero sussistenti. Non possono essere ritenute tali, infatti, le confidenze ricevute da alcune delle persone ascoltate circa il comportamento tenuto dal Maggiore in occasione della loro audizione. Tali circostanze, oltre ad essere state affermate dal solo imputato, rappresenterebbero, qualora pure ritenute veritiere, valutazioni di carattere personale rese dai soggetti coinvolti e raccolte da V. non nell’ambito della propria funzione, ma al di fuori di questa. Dei propri “sospetti”, inoltre, V. non aveva avvertito nessuno, poiché i descritti colloqui con il Generale dei Carabinieri dell’Emilia Romagna erano giunti in un secondo momento, quando ormai la conflittualità con il Magg. V. era conclamata.

E’ allora evidente che, in questa ipotesi di reato, l’interesse personale risulti preponderante rispetto a quello istituzionale, anche considerando che due sono le consultazioni effettuate, a distanza di 20 giorni l’una dall’altra. Se lo scopo fosse stato solo quello di verificare la sussistenza di segnalazioni pregresse circa eventuali reati, la seconda di queste non avrebbe trovato giustificazione, dal momento che tale finalità poteva ritenersi soddisfatta già a seguito del primo accesso. In questo caso, il perseguimento di un interesse pubblicistico, come potrebbe essere considerato quello a verifica di precedenti segnalazioni verso il Maggiore, non ha dunque costituito l’obiettivo principale, il fattore determinante dell’azione dell’agente, da rinvenire invece in un interesse di carattere privatistico, mirante a ricercare elementi nei confronti di un soggetto verso cui sussistevano motivi di antipatia personale e ostilità professionale. Tali sono dunque gli elementi che caratterizzano l’abusività dell’accesso e la sua illiceità.

Dal punto di vista dell’elemento soggettivo del reato, è chiaro che tali considerazioni fossero presenti nella mente dell’agente ancor più che in quella dello scrivente. Sussiste quindi il dolo richiesto dalla fattispecie, quantomeno sotto forma di dolo eventuale.

Sussistono le aggravanti contestate. V. è un pubblico ufficiale, che ha utilizzato l’autorizzazione a lui concessa per finalità diverse da quelle istituzionali, così abusando della propria funzione. La Banca dati SDI è inoltre certamente un sistema informatico rientrante nelle ipotesi previste nel co. 3 dell’art. 615 ter c.p., inerente all’ordine e alla sicurezza pubblica.

Il trattamento sanzionatorio.

A V.S. possono essere concesse le circostanze attenuanti generiche. Egli è soggetto del tutto incensurato e ha mostrato ampia volontà collaborativa nello svolgimento del presente processo, partecipando alle udienze e sottoponendosi all’esame. Tale concessione va soppesata in termini di equivalenza rispetto alle contestate aggravanti, per via anche della complessiva valutazione della sua condotta e della necessità di un migliore adeguamento della pena al caso concreto.

Gli episodi per i quali si ritiene sussistente la responsabilità dell’imputato risultano senz’altro commessi sotto il vincolo della continuazione interna, per l’evidente unitarietà di contesto e finalità.

In merito al trattamento sanzionatorio, considerando i criteri di cui all’art. 133 c.p., per le modalità della condotta e l’entità del pregiudizio creato verso la persona offesa, unitamente alle considerazioni di carattere soggettivo e oggettivo svolte, si stima equa la pena di 5 mesi di reclusione, in relazione al solo punto 12) dell’imputazione. Specificamente, la pena è stata determinata in misura non distante dai minimi edittali avendo riguardo alla positiva personalità dell’imputato e a una condotta che ha visto un numero molto limitato di accessi. La continuazione tra i due episodi registrati comporta un aumento di pena di un mese di reclusione, per la misura finale di 6 mesi di reclusione.

Alla condanna segue ex lege il pagamento delle spese processuali.

All’imputato, incensurato, può essere concesso, anche in relazione al monito costituito dalla presente condanna a pena sospesa e dal rischio di revoca del beneficio in caso di ricaduta nel reato, il beneficio della sospensione condizionale della pena per cinque anni, potendosi presumere che lo stesso si asterrà in futuro dal commettere ulteriori reati.

Per le medesime considerazioni può essere concesso all’imputato il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale richiesto dai privati.

In merito alla costituzione di parte civile ad opera di V.E.M., si rileva come la consultazione dei dati relativi alla sua persona possa sicuramente considerarsi un danno di natura non patrimoniale, stante la lesione alla riservatezza cagionata dall’accesso a informazioni pervasive della vita del soggetto, effettuato per finalità sostanzialmente personali. Si ritiene che il danno essenzialmente morale arrecato all’Ufficiale dell’Arma possa comunque essere liquidato equitativamente nella complessiva somma di Euro 2.000,00, poiché di tali informazioni non è emerso che V. abbia fatto alcun utilizzo, limitandosi quindi a prenderne illecita cognizione.

Infine, ex art. 541 c.p.p., l’imputato deve essere chiamato a rifondere alla parte civile le spese di costituzione e difesa, che si liquidano in complessivi Euro 2.500,00, oltre a spese generali, IVA e CPA come per legge.

La completa analisi dell’intero materiale istruttorio rende, infine, necessario un termine di 90 giorni per la motivazione della sentenza.

P.Q.M.

Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p.

dichiara

V.S. responsabile del reato a lui ascritto in relazione al punto 12) del capo di imputazione e, concesse le circostanze attenuanti generiche in misura equivalente rispetto alle contestate aggravanti, uniti gli episodi contestati sotto il vincolo della continuazione, lo condanna alla pena di 6 mesi di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.

Visto l’art. 163 c.p. ordina che l’esecuzione della presente sentenza resti condizionalmente sospesa per il termine di cinque anni.

Visto l’art. 175 c.p. concede all’imputato il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale richiesto dai privati.

Visto l’art. 530 co. 1 e 2 c.p.p.

Assolve

V.S. dal reato a lui ascritto in relazione al punto 1) perché il fatto non sussiste e in relazione al punto 13) per non aver commesso il fatto.

Visti gli artt. 538 e segg. c.p.p. condanna V.S. al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita V.E.M., liquidato equitativamente nella somma di Euro 2.000,00. Condanna, altresì, V.S. alla rifusione delle spese di costituzione e difesa in favore della parte civile V.E.M., liquidandole in Euro 2.500,00 oltre spese generali, IVA e CPA.

Visto l’art. 544 co. 3 c.p.p., fissa in giorni 90 il termine per il deposito delle motivazioni.

Così deciso in Ferrara, il 21 maggio 2019.

Depositata in Cancelleria il 3 settembre 2019.

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